Se lo spirito con cui il documentario è stato girato, ma soprattutto montato, è una parodia autoironica della condizione occidentale e della propaganda antisocialista del secolo scorso, il documentario è perfettamente riuscito. Purtroppo, dalla serietà con cui il conduttore Davide Scalenghe ha concluso il programma, sottolineando le difficili condizioni della libertà di stampa in Italia, apprendo che lo spirito era ben diverso: l’ennesima strumentalizzazione della condizione della gente cubana in chiave politica filo-occidentale.
Non penso che a cuba ci sia la democrazia, non penso che a cuba ci sia il socialismo. Quello che dobbiamo sforzarci di capire è cosa sono l’una e l’altro. Se il socialismo totalitario, come si è infine realizzato in unione sovietica ed a cuba, è solo l’ombra di una società veramente libera e socialista, la democrazia liberista dei paesi occidentali è solo uno squallido scimmiottamento del significato di democrazia. Il documentario lo evidenzia piuttosto bene, quando in coda ad una serie di testimonianze di ragazzi cubani, la voce narrante elenca una seria di auspici, parlando dell’imminente controrivoluzione a cuba e facendo riferimento al nome dei ragazzi stessi ed ai loro desideri: si parla qualunquisticamente di una cuba libera, dove si possa dissentire con le autorità, dove ci sia libertà di informazione ed espressione, dove si possa fare un cuba-libre senza beffa, dove ci sia libertà di religione, dove non si debba espatriare per avere un futuro, dove l’Havana sia più moderna, dove gli studenti possano protestare ed organizzarsi, dove nessuno soffra la fame e tutti possano avere la casa dei propri sogni. Non so quanto consoli i fratelli cubani che vivono sotto il regime Castrista, ma da giovane studente di un paese che fa parte del G8, di fatto, io non ho un futuro, non ho libertà d’espressione, non posso dissentire con le autorità, non ho la certezza di non soffrire la fame e di certo non avrò mai la casa dei miei sogni. In compenso, possedendo un minimo di denaro, posso affogare in litri di cuba-libre, capirinha, sex-on-the-beach, negroni e tanti tanti altri cocktail il cui ingrediente principale si chiama decervellamento, ma soprattutto posso postare tutto ciò che voglio su internet, che si andrà ad aggiungere ai post di milioni di alienati con l’illusione che poter scrivere sia democrazia, e che non avrà neanche l’1% della rilevanza di venti secondi sulle reti televisive nazionali in mano ai padroni del mercato “libero”.
La superficialità e la retorica con cui si è affrontato e descritto il tessuto sociale cubano sono oltremodo dannose e devianti, manifestando la volontà di non voler effettivamente denunciare le difficoltà che quel popolo affronta, analizzandone contestualmente le cause, quanto piuttosto criminalizzare il modello castrista e metterlo in cattiva luce rispetto al totalitarismo di mercato occidentale.
Questo risulta ancora più palese quando la voce narrante pronuncia, solennemente: “…una cuba dove gli stati uniti potranno togliere l’embargo”.
Si inorridisce di fronte a tanta violenza! Buona parte della fame dei cubani è causata dall’embargo che il paese più ricco del mondo, distante poche centinaia di miglia da Cuba, ha istituito da cinquant’anni per i propri meri interessi economico-politici: una misura violenta e disumana che avrebbe piegato qualsivoglia economia, che deve essere condannata come epocale violazione dei diritti umani e considerata come concausa di ogni sofferenza del popolo cubano, a braccetto con le deviazioni del regime. È vergognoso il capovolgimento tra cause e conseguenze tentato dai documentaristi.
È necessario affermare i principi di un’esistenza libera e di una società equa tanto a Cuba quanto in Italia, in Francia, negli Usa e in tutto l’occidente. Non fa eccezione il regime Castrista nello schedare ed alienare tutti i dissidenti del regime: chiunque osi mettere in discussione l’ordinamento politico ed economico dello stato, la sua organizzazione ed i suoi principi, viene schedato ed è vittima di persecuzione giudiziaria, economica, sociale anche in Italia. La differenza del nostro approccio, tipico di una cultura indottrinata da decenni di propaganda e pensiero unico, è: la nostra società è giusta, quindi è giusto contestare chi la mette in discussione; le società apparentemente diverse, seppur producono i medesimi effetti, sono “sbagliate” ed è giusto modellarle a nostra volontà. Del resto buona parte del merito di una tale riuscitissima mistificazione è da attribuire esattamente agli artefici del modello liberista, primi fra tutti gli strateghi statunitensi, sociologicamente ed antropologicamente molto più efficaci di qualsiasi sostenitore di altre dottrine economiche, in quanto capaci di fondare e conservare l’organizzazione gerarchica della società riducendo al minimo la repressione delle masse. Il controllo, infatti, si basa sull’illusione della libertà: si pensi alla libertà di avere una casa. Formalmente nessuno impedisce ad un individuo qualunque di possedere una villa con piscina, ma sarà la propria posizione economica ed il mercato a stabilire se e che tipo di casa sarà in nostro possesso; questo continua a tenere sotto controllo milioni di persone che, per avere un posto dove dormire, accendono mutui trentennali (alimentando il potere economico delle banche), ma si addormentano tutte le notti, sfiniti di lavoro, sognando un giardino con il barbecue ed il cane, fedeli al più stereotipato modello americano esportato con serie televisive e propaganda spicciola. E non tutti hanno ormai la possibilità di accendere un mutuo!
Difendere la rivoluzione cubana come l’atto con cui il popolo, guidato da un gruppo di eroici rivoluzionari, si è liberato di una dittatura brutale e si è affacciato verso la speranza di uno stato socialista, quindi equo e governato dal basso, è un dovere, così come criticare il regime che ne è scaturito, seppur in condizioni tremendamente indotte. Allo stesso tempo dovremmo riflettere e ragionare sui nostri regimi, sui nostri stati, sulle nostre condizioni di vita e su quelle che imponiamo agli altri.
Pronuncia la voce narrante: “Nelle scuole di cuba vengono ancora insegnati i canti del socialismo e l’odio verso l’imperialismo”. Che amara constatazione. Evidentemente, agli occhi offuscati dei documentaristi, Iraq, Afghanistan, Palestina, Triangolo del Niger, Libano e vent’anni di guerra permanente non si chiamano imperialismo, ma esportazione della democrazia. Ci riserviamo di dissentire da questa interpretazione ed apprezzare questa minima parentesi di istruzione cubana, soprattutto in relazione alla formazione impartita in Italia, che, per esempio in storia, non arriva di fatto oltre la seconda guerra mondiale. Del resto sarebbe imbarazzante spiegare a generazioni di giovani studenti che la loro democrazia si basa su sessantanni di stragi di stato, strategie della tensione, segreti di stato, servizi segreti internazionali, influenze statunitensi, giochi di potere, diritti enunciati dalla costituzione ma conquistati solo in piazza vent’anni dopo (implicherebbe svegliarli mentre glieli sottraggono) col sacrificio e persino col sangue, guerre funzionali all’industria delle armi ed all’imperialismo petrolifero, assoggettamento e sfruttamento del terzo mondo (si pensi anche solo all’ENI), disastri senza alcun colpevole eccetera eccetera eccetera.
Il messaggio deve essere chiaro, ma profondo: si alla rivoluzione cubana, no alla burocratizzazione, alla gerarchizzazione, alla discriminazione nell’intero pianeta. Vogliamo Cuba organizzata democraticamente attraverso consigli popolari, con libertà di espressione e libera dall’embargo e dalle influenze occidentali. Vogliamo l’occidente organizzato democraticamente attraverso consigli popolari, libero dal mercato e dal profitto privato che ne connota la natura violenta, egoista ed imperialista.
Esortiamo documentaristi ed opinionisti a lanciare un messaggio di vera libertà e democrazia ogni qualvolta affrontano la questione Cuba, che non può essere quella del regime castrista, non può essere quella dei regimi di mercato, non può essere quella delle multinazionali dell’informazione. Ahimè le speranze di veder realizzato questo desiderio sono piuttosto minime, in quanto i documentaristi, in genere, sono esattamente al soldo di queste ultime.
Flavio Stasi