Riflessioni sul movimento studentesco

Riflessioni sul
movimento studentesco


Cosa stiamo vivendo?



Non possiamo non essere
realisti, viviamo giorni ingloriosi. Attraversiamo tempi e spazi bui,
in cui è raro avvertire qualsivoglia idealità, in cui l’inutile ed
arcaica solidarietà deve lasciar posto ad uno spiccato ed efficiente
egoismo, dove valori come uguaglianza e giustizia risultano vuote
entità schiacciate dalla molto più pratica convenienza e da schemi
predefiniti, imprescindibili. Come studenti ci rapportiamo ogni
giorno con tempi frenetici e compressi, investiti in un processo di
formazione che risulterà poi inutile per la nostra crescita umana e
intellettuale, fungerà invece da biglietto d’ingresso per il mercato
del lavoro, un biglietto che non ci garantirà assolutamente alcuna
certezza o stabilità, anzi, solo pochi di noi saranno risparmiati
dalla precarietà lavorativa e di vita. Mercato del lavoro: di primo
acchito un’espressione del tutto naturale, di uso frequente, eppure
di per sé concetto che rappresenta una pesante ipoteca nella libertà
individuale e collettiva degli uomini. Che cosa è il lavoro? Quale è
il significato e quale lo scopo?

È un compito
arduo e altamente dispendioso, in termini di tempo ed energie,
ovviamente impossibile da affrontare in uno scritto o in una
riflessione, inoltre si tratta di un contro processo difficile da
realizzare se non attraverso l’erosione, il sabotaggio o almeno il
rallentamento del processo in corso o dell’apparato che lo ha
generato. Qualcosa però è necessario e possibile: analizzare,
iniziare a mettere in discussione pratiche e concezioni che si
diramano in quasi ogni angolo e direzione della nostra vita, sociale
ed individuale, e che di fatto la strutturano e la consolidano per
come la conosciamo.


Il punto di partenza:
la condizione studentesca e l’università nella società



Quello
che viviamo come studenti è pressappoco la riflessione
settorializzata di quanto accade o è già accaduto nel resto delle
sfere sociali. Il contesto, l’università, si configura come centro
di potere politico ed economico, regolato dai principi del libero
mercato esattamente come un’industria, per cui i ritmi e le qualità
di produzione sono assolutamente dipendenti dagli investimenti, dai
costi di lavorazione e reperimento, dal rapporto tra domanda e
offerta. Il concetto stesso di università come luogo di formazione e
crescita, individuale e della società intera, è violentato
dall’unico trattamento possibile da riservare all’istituzione
universitaria (così come ad ogni altra istituzione socialmente
utile) all’interno della globalizzazione neoliberista che viviamo da
anni. Si tratta solo, per burattinai e burocrati, di trovare tempi e
modi che garantiscano la riuscita, con meno complicazioni
possibili
, di tale appiattimento. Sarebbe difatti
inaccettabile la presenza di un centro di criticità e formazione,
finalizzato allo sviluppo di individui coscienti e critici
all’interno dell’economia degli effetti speciali, degli sprechi,
delle guerre, delle menzogne, degli spot pubblicitari insulti
all’intelligenza umana stessa. Si tratta quindi di uniformare anche
questo luogo (spaziale e temporale) a tutto il resto, con, purtroppo,
ulteriori aggravanti rispetto ad altri contesti. Innanzitutto
l’università in quanto tale ha il compito di porre delle domande e
dare delle risposte, da un punto di vista scientifico, storico,
antropologico. Questo ha terribili implicazioni, per cui possiamo
affermare che quanto meno saranno libere l’università e la ricerca,
meno saranno veritiere e corrette le risposte prodotte dalla comunità
tutta, fino a giungere all’origine, con filtraggio e censura delle
domande stesse, in un’ottica oscurantista che purtroppo non ha mai
del tutto abbandonato i processi umani. Si può e si deve parlare di
oscurantismo moderno riferendosi al denso apparato di produzione,
manipolazione e diffusione delle informazioni, delle idee e della
storia, partendo dall’influenza mediatica su quotidianità e modi di
vivere, passando per l’ampia letteratura revisionista su vicende
storiche e politiche del passato prossimo e remoto, fino alla pesante
influenza sull’opinione pubblica riguardo a questioni scottanti o
straordinarie attraverso l’intero apparato informativo e creativo al
soldo dei poteri finanziari globali. Si può e si deve parlare di
oscurantismo moderno riferendosi al processo di regressione delle
libertà individuali agendo sulle capacità cognitive delle masse,
anestetizzando le sensibilità e le coscienze attraverso forme di
bombardamento comunicativo incentrate su tre finti valori: immagine;
ragione economica; contro-etica. In questo quadro deve valutarsi oggi
l’università come luogo di ricerca, creazione ed elaborazione
dell’informazione e del sapere, ed è in questo quadro che purtroppo
oggi essa si configura e in cui gli studenti (e non solo) debbono
agire.


Il campo d’intervento



Dunque
l’università deve essere luogo di emancipazione culturale e sociale
delle masse, nonché fonte di miglioramento delle condizioni
dell’umanità tutta attraverso il progresso scientifico e la
comprensione dei processi antropologici. Questo può verificarsi solo
qualora gli atenei risultino assolutamente liberi, insensibili a
tutte le influenze ed i contesti che caratterizzano oggi la nostra
vita. Dovrebbe quindi essere priva di legami politici che la
vincolino a logiche del potere; libera da legami economici che ne
vincolerebbero la sopravvivenza a fonti di finanziamento privato o
fonti pubbliche non erogate per puro principio, quindi senza alcun
corrispettivo di tipo implicito; libera dai contesti
sociali-normativi in cui si impianta, quindi assolutamente aliena,
per esempio, ai processi di “ristrutturazione” del mondo del
lavoro, dalle politiche sull’immigrazione, dalla “riorganizzazione”
della giustizia, dalle normative territoriali eccetera; libera dai
contesti sociali-culturali in cui si impianta, quindi ulteriormente
aliena a questioni etiche o religiose, fenomeni comportamentali o
sottoculturali, al processo di istruzione preparatorio all’università
stessa, con le sue centinaia di sfaccettature diverse. Per dirla in
poche parole, l’università dovrebbe essere situata su un altro
pianeta. Ecco perché le analisi e gli interventi del movimento
studentesco non possono che partire dall’università, luogo centrale
di confronto e riscontro delle proprie condizioni, ma devono
necessariamente abbracciare anche tutti quei contesti e settori che
vivono, seppure a volte in forme diverse, i risultati o i mutamenti
delle stesse logiche di base, logiche che devono essere evidentemente
corrette ed a cui non possiamo che opporci. Primo fra tutti il mondo
del lavoro, che si configura in parte come alternativo alla via dello
studio e della alta preparazione, ma che comunque presenta tutti
quegli elementi di continuità che dobbiamo ricercare rispetto alle
politiche dell’asservimento, dell’anestetizzazione delle coscienze e
delle capacità di comprensione, della precarizzazione della vita
come strumento di controllo e di blocco sociale. Ma queste
considerazioni limitate risultano, man mano che i processi normativi
vanno avanti, sempre più superflue: infatti oggi, più che
alternativo all’inserimento diretto nel mondo del lavoro, il percorso
di studi è assolutamente strumentale ad esso, non consentendo la
minima possibilità di fuoriuscita da tutte le dinamiche citate
precedentemente, trasformando il bacino dei lavoratori da parallelo
ed ugualmente attraversato da punti di potenziale opposizione comune,
ad assolutamente inclusivo del bacino studentesco che ne risulta
organico. Volendo effettuare un brutale parallelismo storico, se
prima gli studenti erano spesso borghesi di condizione, che
reclamavano un’altra società basata sull’abbattimento delle classi e
quindi sul superamento dello stato borghese stesso, scendendo quindi
in piazza da borghesi o futuri tali al fianco della classe
lavoratrice, oggi questa sorta di paradosso classista è superato
dalla proletarizzazione, seppur parziale, di ampi settori e livelli
di quella che una volta era la borghesia. Proletarizzazione implicita
molto spesso avvenuta attraverso il principio della flessibilità,
quindi della precarizzazione, strumento con cui le medie e grandi
imprese hanno potuto superare i vincoli di rispetto e di diritti dei
lavoratori di ogni categoria e specializzazione, rivendicando
necessità liberiste assolutamente estranee a quelle delle masse,
quali la competitività e la libertà d’impresa, ma di fatto
ottenendo nuovi ed innalzati profitti privati.



Così
come si trovano numerosi punti di continuità con tutti quei
territori e settori che effettuano delle rivendicazioni di tipo
ambientale, umanitario, pacifista. È evidente infatti come tutte le
questioni citate risultino in qualche modo violate dalla stessa
logica e politica, nel tentativo di guadagnare o salvaguardare spazi
di manovrabilità finanziaria a scapito di territori, etnie, intere
nazioni o, senza purtroppo esagerare, dell’intero globo, quindi
dell’umanità stessa. È facilmente riscontrabile, infatti, che in
tutti i casi
la devastazione dei territori, l’installazione di
impianti dannosi, l’inquinamento di aria e di acqua, la privazione
dei diritti degli immigrati, lo sfruttamento dei territori
sottosviluppati, i conflitti bellici, risultino accomunati dalla
medesima logica di fondo, dai medesimi scopi di profitto e, non
secondariamente, dalla stessa strategia comunicativa manipolatoria.


Appendice
1 : potere ed autodanneggiamento


Si
potrebbe storcere il naso riflettendo su un qualsivoglia apparato che
si impianti in un qualsivoglia contesto e che, attraverso le proprie
azioni, danneggi irreparabilmente il contesto stesso. Quando parliamo
di violazioni e di logiche che danneggiano l’intero globo, quindi
l’umanità stessa, si potrebbe obiettare che quelle logiche sono
mosse, in ogni caso, da uomini, e questo dovrebbe invalidare
l’analisi che li rende colpevoli come tali, in quanto nessun uomo
sarebbe disposto a danneggiare se stesso, sviando così la
spiegazione e l’analisi di determinati fenomeni su campi più
aleatori con ragioni di fondo del tipo “il male minore” o “il
naturale decorso delle cose” o “far male oggi per fare bene
domani” e così via, attraversando svariate espressioni comuni
quanto vuote e insulse che però, terrificante e banale verità,
risultano magicamente credibili se veicolate attraverso uno schermo
luminoso, con sorriso rassicurante e vestito impeccabile.


Non
c’è da stupirsi, in realtà, nella illogica prassi di
autodanneggiamento del potere, intesa come il danneggiamento
dell’umanità tutta, presente in alcune delle sue pratiche. Il potere
in quanto tale è vincolato ai suoi effetti che, a loro volta,
rispecchiano istantaneamente la consistenza del potere stesso.
Definiamo effetto la capacità di intervenire da parte di un
apparato di potere nel contesto in cui si impianta. Sarebbe
inopportuno tentare di definire con poche righe il concetto di
potere, ed in verità probabilmente non sarei in grado di farlo in
modo completo, è però certo, in base a questa relazione, che lo
spirito autoconservativo degli apparati di potere spesso ignora
obiettivi o condizioni eccessivamente lontane nel tempo per dei
semplici motivi:

  • Mantenere gli effetti del
    proprio potere risulta in ogni momento altamente prioritario,
    evitando che si instauri una reazione a catena di decadimento
    dell’apparato stesso causata dalla mancata possibilità di
    intervento

  • Condizioni di degrado futuro
    del contesto dove l’apparato di installa non implicano la decaduta
    degli effetti correnti, quindi risultano secondarie.

  • Permane nell’apparato il
    convincimento che, anche qualora si presenti il degrado del
    contesto, le condizioni di potere, quindi gli effetti, gli
    permettano di non risentirne o quantomeno risentirne limitatamente.
    Usando una metafora: se la nave affonda il capitano ha sempre la
    personale scialuppa di salvataggio.


Inutile
dire che c’è ben poco di umanamente logico in determinate dinamiche,
ma il rapporto tra l’uomo ed il potere ha storicamente segnato delle
punte assolutamente illogiche quanto disumane; siamo solitamente
bravi a riconoscerle nel passato, scriverle nei libri di storia,
capirle e criticarle, un po’ meno a carpirle nel presente, sia in
larga scala che nelle piccole vicende quotidiane, quelle che in ogni
caso non finirebbero mai nei libri di storia.



Il ruolo
degli studenti


Definiti
i campi d’intervento, sorge legittima e naturale la questione del
ruolo del movimento studentesco all’interno dell’università così
come in ambiti esterni ad essa.


Le
rivendicazioni prettamente studentesche devono essere avanzate
mediante una duratura opposizione politica e sociale agli apparati
che determinano la regressione delle condizioni presenti o comunque
la loro conservazione, intervenendo quindi su tutti i livelli
dell’amministrazione dell’istruzione pubblica: facoltà, atenei,
provveditorati, amministrazioni locali, ministero/i. Utilizzare delle
parole d’ordine chiare in una o più piattaforme che non siano il
risultato di trattative al ribasso, prassi di organismi concertativi
responsabili di molte gravi sconfitte dei movimenti popolari degli
ultimi decenni, ma bensì ambiziose, comprensive di punti e
rivendicazioni in più ambiti e su più livelli, dense di nodi di
rottura con una società che deve essere contestualmente studiata e
analizzata, per raggiungere una organica comprensione delle sue
contraddizioni e quindi meglio argomentare le nostre alternative. Una
fase di studio costante e continuo che probabilmente, in questo
momento, solo lo studentato attivo può effettuare parallelamente
alla lotta ed alla opposizione, in attesa della crescita e
dell’acquisizione di coscienza delle masse all’interno del mondo del
lavoro, dei movimenti territoriali e dei (rari) luoghi di
aggregazione sociale. Da questo punto di vista inutile farsi
illusioni: non ci sono grandi masse di studenti pronti a mettere e
mettersi in discussione così come non ci sono masse di lavoratori
che stanno aspettando le nostre parole per sollevarsi dal proprio
sfruttamento quotidiano. Ma anche per questo non bisogna attendere
oltre: è necessario riuscire a insinuare alcune cardinali
riflessioni anche al di là delle aule universitarie. In questo caso,
quindi, il ruolo del movimento studentesco è quello di solidarizzare
con tutte le lotte già in atto, ed allo stesso tempo estendere le
proprie rivendicazioni e tentare di innescare crescita delle
coscienze e nuove lotte, cercando di tramutarle da vertenziali a
sistematiche, offrendo quindi una prospettiva ed una programmaticità
ad oggi inesistente. Non si tratta di uno schiocco di dita, non è
detto che come studenti raggiungeremo mai la maturità politica di
tentare e riuscire in questo scopo, ma ritengo che sia l’unico modo
che abbiamo per uscire dalla ghettizzazione settoriale in cui ogni
categoria sociale si è incastrata, condizione che si trasforma poi
in debolezza e che fa quindi comodo solo a chi in questi anni ha
perpetrato politiche antipopolari.


È
necessario definire contestualmente quale non dovrebbe essere il
ruolo degli studenti e del movimento studentesco, soprattutto
riflettendo sulla cattiva abitudine di attribuire ad esso ed alla
politica in generale, valore solo ed esclusivamente in virtù di
constatazioni tecniche. È stato spesso imputato, soprattutto ai
movimenti popolari dell’ultimo decennio, di essere compagini
esclusivamente del “no”, capaci quindi solo di opporsi e non di
proporre alternative. Questo ha avuto il positivo effetto di rendere
più organiche la formulazione delle ragioni ed effettivamente meglio
strutturate le alternative proposte, ma in molti casi ha costretto i
laboratori politici a cimentarsi in ambiti puramente tecnicistici per
cui, legittimamente, ci si è trovati spesso inadeguati, con
conseguente perdita di tempo e risorse e successiva perdita degli
obiettivi e degli scopi politici, assolutamente primari. Nella
specifica studentesca, sia chiaro che non sta agli studenti
riscrivere regolamenti, statuti, piani di studi, redigere il bilancio
degli atenei o meglio gestire le risorse stanziate per o dal
ministero dell’istruzione (…), le mansioni di questo tipo devono
essere indirizzate dalla politica, non svolte da essa. Si può per
esempio sottolineare che le risorse finanziarie tagliate
all’università vengano di fatto dirottate (o colpevolmente lasciate)
in altri ambiti, in quanto definanziare l’istruzione per finanziare
armamenti (per citare una delle destinazioni) è un dato politico
prima che economico, non per questo può essere compito del movimento
studentesco riscrivere la manovra finanziaria di qualsivoglia
governo; così come denunciare un percorso di studi nozionistico,
acritico, frenetico, fallimentare, non può implicare la
responsabilità di riscrivere regolamenti di facoltà, corsi di
laurea, piani di studi eccetera. Il nostro ruolo è quello di
proporre e rivendicare un altro modello di università, un’altra
strategia di investimento del denaro pubblico, un’altra logica nelle
normative del lavoro, un’altra società. Fra l’altro, l’accettazione
di obiezioni tecniche all’interno di un movimento che effettua delle
rivendicazioni politiche, è sintomatico di una mancata chiarezza
interna: un’opposizione politica, infatti, trascende assolutamente
dalla tecnica, in quanto intende mettere in discussione le ragioni
alla base delle scelte, non la loro efficacia.


La
politica, più opportunamente, dovrebbe far uso di risorse tecniche
come strumento empirico di valutazione delle scelte politiche o dei
loro effetti, organico ad un impianto di valutazione generale, libero
e popolare.




Appendice
2 : analisi della politica tecnicista nel
pensiero unico


Parte
della confusione nell’interazione tra politica è tecnica ha una base
fortemente legata alle pratiche delle burocrazie istituzionali che ci
governino ed alla loro monoliticità politica: non essendoci
effettivamente diversi punti di vista politici nell’analisi e nella
risoluzione generale delle questioni che riguardano l’amministrazione
del paese come del singolo comune, la competizione tra più parti
politiche avviene non sul campo politico, ma sul campo tecnico:
questo fa si che un politico sia un bravo politico se le
soluzioni da lui proposte, nel ristretto ambito di mobilità
liberista, siano (o sembrino) più efficaci delle soluzioni di un
altro politico. Ad esempio, il confronto elettorale si basa di fatto
su due principi fondamentali:

  1. la capacità di presentare come credibili le proprie
    promesse

  2. l’efficacia tecnica delle soluzioni proposte

Sia
chiaro che si tratta di una efficacia assolutamente relativa,
limitata a priori da presupposti politici inviolabili e dalle
relative conseguenze reali. Il dibattito parlamentare (e mediatico)
rispecchia costantemente queste caratteristiche. Non vi è analisi,
non vi è proposta tecnica organica ad una proposta politica, non vi
è la messa in discussione di null’altro che dei diritti acquisiti
dalle masse, unico bacino di acquisizione delle risorse necessarie
per il sostenimento del sistema mondiale. È una naturale conseguenza
del pensiero unico, ovvero dell’egemonia politica e culturale del
neoliberismo in tutto l’occidente. Quasi ogni tipo di problematica
non rappresenta spunto analitico radicale o discussione approfondita,
vengono aprioristicamente assunti tutti i concetti fondamentali di
sostegno e conseguenziali ad una società basata sul profitto
privato, e si affrontano quindi le scelte in base ad una gamma
limitata e confrontandole in termini di efficacia e di costo, quindi
in termini tecnici. Tuttalpiù viene tenuto in considerazione,
strumentalmente, l’impatto sull’opinione pubblica di una data scelta.
In pratica potremmo essere governati da ottimi economisti ed
ingegneri che producano il massimo rapporto possibile tra costi e
risultati dell’amministrazione di un paese data una predeterminata
analisi politica, e probabilmente otterremmo dei risultati migliori
di quelli ottenuti da una casta di politicanti ultra privilegiati,
per lo più tecnicamente inadeguati, moralmente servili e servilisti.
Si noti, inoltre, come questo fattore dia la possibilità di
propagandare alcune misure come finalizzate alla risoluzione di
determinate problematiche, spesso socialmente sensibili, mentre in
realtà perseguono scopi diversi o addirittura contrari. Questo è
possibile grazie alla banalizzazione tecnicistica dei contesti
conseguente all’assunzione di principi politici ed economici
predeterminati. Per meglio comprendere, si pensi alla precarizzazione
dei contratti di lavoro: essa è stata presentata come la soluzione
alla rigidità del mercato del lavoro italiano che limita la libertà
d’impresa, quindi la crescita economica del paese, conseguentemente
dei cittadini, una misura, quindi, che dovrebbe migliorare le
condizioni della popolazione. Il ché è in parte vero, contratti
garantiti ed a tempo indeterminato comportano un costo per imprese ed
industrie, quindi ostacolo agli investimenti nazionali ed
internazionali e freno per la crescita economica di un paese,
liberista. All’interno dell’unione europea, liberista. In regime di
globalizzazione, liberista. Oggi aggiungiamo in piena crisi,
liberista. Dunque, per favorire la “crescita” del paese, dovendo
essere governati dai mercati e non dai bisogni, si privano
lavoratori, famiglie e giovani delle garanzie di un lavoro sicuro,
rendendo il futuro irrimediabilmente precario per gran parte della
popolazione. Nonostante questo, è stato possibile effettuare una
propaganda positiva per tali misure che, seppur non ha convinto
tutti, ne ha di certo attutito e dilazionato l’impatto sociale.
Questa contraddizione, purtroppo resa poco evidente dalle
estemporanee opposizioni parlamentari votate, si ritrova in pressoché
tutte le riforme e gli “ammodernamenti” varati da governi di
qualsiasi colore, ed in qualunque ambito.


Cosa
siamo, cosa vogliamo essere?


Durante
i pochi mesi in cui il movimento studentesco si è sviluppato,
abbiamo assistito all’aggregazione di forze sociali nuove e
particolarmente diverse, fenomeno assolutamente normale e necessario
per la vita di un movimento. Ci si è incontrati e raccolti intorno
alla semplice contrarietà ad un provvedimento normativo, la legge
133, ma internamente al movimento sono sorti spontaneamente domande
interessanti e termini sbalorditivi. A molte di queste domande
dobbiamo ancora rispondere, è probabilmente giusto svilupparci
attraverso l’esperienza ed il confronto tra le individualità, che
favorisca poi effettivamente la formazione di una forza collettiva e
coesa. Partendo da questo presupposto, è utile iniziare a porre dei
quesiti. È rispuntata nel movimento, probabilmente più per “sentito
dire” che per effettiva concezione, la parola rivoluzione,
trovo necessario dar vita a delle riflessioni partendo proprio da
questo: noi
siamo un movimento rivoluzionario? In caso
contrario, che movimento siamo? Che movimento vogliamo essere?
Naturalmente buona parte della caratterizzazione di un movimento
scaturisce dall’analisi generale che esso assume come propria. Come
detto il punto di convergenza tra tutti noi è stata la contrarietà
ad un provvedimento normativo di natura finanziaria, ma
nell’interpretazione della matrice di quel provvedimento possiamo
consumare già una prima distinzione.

  1. Possiamo considerare la legge 133 come la
    manifestazione di una cattiva intenzione da parte di una fetta della
    classe dirigente del paese, di natura quindi contingente, sporadica
    o partitica.

  2. Possiamo considerare la legge 133 come la continuazione
    di una politica decennale di smantellamento dell’istruzione pubblica
    da parte di tutta la classe politica istituzionale del paese, il ché
    configurerebbe la questione come grave, ampia, ma comunque
    prettamente politica

  3. Possiamo inquadrare tale smantellamento come l’ovvia
    conseguenza di una società che va via via assumendo la forma di una
    giungla finanziaria in virtù del suo fondamentale motore: il
    profitto privato.

Non
banalizziamo, non è una domanda a risposta a multipla, ne tre righe
possono essere esaustive di argomentazioni tanto complesse e ampie,
tuttavia è evidente come già queste tre semplici opzioni
caratterizzino non poco un qualsivoglia movimento o forza sociale.

Personalmente
ritengo che l’ipotesi giusta sia anche la peggiore. Come studenti non
abbiamo da lottare contro un provvedimento, una serie di
provvedimenti, un ministro, un governo. Essi infatti non sono altro
che la facciata, il braccio della fondamentale necessità del sistema
di autoconservarsi, mantenendo e rafforzando i regimi di mercato, la
realizzazione dei profitti, il controllo su territori e popoli. Si è
spesso contrapposto alla condizione di
totalitarismo,
attribuito al fascismo quanto allo stato sovietico, la condizione di
ordinamento democratico o regime di libero mercato. Questo è falso
e strumentale, il regime di libero mercato è di fatto totalitarismo
del mercato, che regola direttamente e indirettamente ogni aspetto
della vita individuale e collettiva, manovra e indirizza la politica
statale e sovrastatale, inoltre, non essendo mai stato in condizione
di perfetta concorrenza (condizione che anche gli economisti
liberisti non posso che ritenere ideale, quindi irraggiungibile), si
tramuta in regime oligarchico, in mano ai soggetti di mercato più
forti che, grazie al mercato stesso, consolidano sempre più la loro
posizione. Analizzando le condizioni teorizzate da Gianni Oliva,
ignorando ovviamente i suoi attuali ruoli istituzionali, per definire
un totalitarismo, non possiamo che realisticamente includere lo stato
di cose presente in questa sfera:



  1. Concentrazione del potere in capo
    ad un’oligarchia inamovibile e politicamente irresponsabile


  2. Imposizione di una ideologia
    ufficiale


  3. Presenza di un partito unico di
    massa


  4. Controllo delle forze operanti
    nello Stato (polizia) ed uso del terrore


  5. Completo controllo della comunicazione e dell’informazione.


Lo stato di cose presente ha raggiunto quasi nella
totalità tutte le condizioni elencate, o si sta avvicinando ad
esaudirle, ma in maniera molto più raffinata e subdola dei
totalitarismi riconosciuti ufficialmente come tali. Innanzitutto si
struttura come sovranazionale, risulta quindi impalpabile e poco
identificabile, inoltre realizza attraverso forme apparentemente
diverse quanto si prefigge di ottenere. Un partito unico, per
esempio, sarebbe eccessivamente discutibile e vistoso agli occhi
dell’opinione pubblica, il bipolarismo invece, propagandato con la
retorica della governabilità e dello scioglimento delle antiche
“cortine di ferro”, risulta facilmente commestibile per
l’opinione pubblica e realizza in pieno lo scopo, garantito infatti
dall’alternanza di due apparati differenti nell’immagine, ma che
realizzano esattamente la medesima politica economica, lasciando che
il paese si confronti solo su questioni secondarie o specifiche e si
divida, miope, nelle campagne elettorali. L’imposizione di
un’ideologia è ancora meglio architettata, perché mascherata da
anti-ideologia. Viene infatti etichettato come dietrologico,
totalitario, inadeguato, vecchio, qualsiasi richiamo a ideologie di
stampo politico e culturale, sfoggiando un più populista e
comprensibile pragmatismo su qualsivoglia questione, con cui vengono
giustificate oggi misure di ogni tipo. Innanzitutto l’anti-ideologia
è di per se un concetto ideologico, ma il pensiero
unico,
quindi
il liberismo,
è
di fatto il dettame ideologico della nostra realtà, la cui mancata
etichettatura “ideologica” risulta utile per due motivi: il
riconoscimento dell’ideologia liberista la farebbe rientrare nel
campo di tutte le altre ideologie, creerebbe quindi delle potenziali
alternative; non definire quella dominante come un’ideologia
favorisce, inoltre, l’effettiva soppressione delle potenziali
alternative, definendo la nostra società come
post-ideologica,
sottintendendo quindi il superamento di tutte le ideologie
precedentemente sperimentate o diffuse.
Si potrebbe
così argomentare ogni singolo punto tra quelli elencati da Oliva,
passando attraverso le stragi di stato, la violenza di piazza, la
proprietà dei mezzi di informazione ed altre questioni da
approfondire probabilmente in testi a parte. Tornando alla questione
iniziale, le destrutturazioni universitarie, così come quelle del
mondo del lavoro, della giustizia, come le questioni internazionali e
altro ancora, non sono altro che sfaccettature dello stesso sistema
totalitario di potere centralizzato e gerarchizzato, per lo più, in
diversi consigli d’amministrazione aziendali. Se questa fosse
l’assunzione del movimento studentesco e non di una sua parte o di un
suo singolo componente, allora esso non potrebbe che definirsi
rivoluzionario.


Ma cosa significa essere rivoluzionari? Anche questo
implicherebbe probabilmente lunghi testi a parte, mi preme solo
confutare alcune facili strumentalizzazioni. Il termine infatti viene
subito etichettato come violento, o ridicolizzato banalmente: “dove
li avete nascosti i fucili?”. È una vecchia pratica, purtroppo la
sua fonte non è, formalmente, ne conservatrice ne liberista, anzi.
In ogni caso essere rivoluzionari significa, almeno, avere
l’intenzione di cambiare lo stato di cose presente attraverso la
messa in discussione delle sua fondamenta. Essere rivoluzionari,
purtroppo, non è mai stata e non sarà mai una scelta, è una
necessità, dettata dall’immutabilità sostanziale delle condizioni
dell’umanità all’interno dello stato di cose stesso.


E qualora un movimento non si definisca
rivoluzionario, che movimento è?


Potrebbe essere un movimento vertenziale, che si
muove dunque nell’ottica di una singola rivendicazione o di un gruppo
di rivendicazioni omogenee, che assuma quindi forma corporativista o
settoriale. Potrebbe essere un movimento riformista, che intende
quindi cambiare le proprie condizioni attraverso la spinta verso il
varo di riforme da parte di istituzioni o organismi che risultino,
quindi, a loro volta riformisti, per scelta o per condizioni
contingenti. Sarebbe di certo molto più semplice. Trovo francamente
difficile debellare la logica stessa che oggi regola il rapporto tra
gli uomini attraverso una riforma, così come credo che degli
obiettivi raggiunti attraverso questi strumenti, se non supportati da
una continua salvaguardia quindi da una costante mobilitazione,
vengano successivamente erosi, risucchiati e cancellati
automaticamente col passare del tempo da quegli stessi organi che
precedentemente, costretti dalle mobilitazioni, li avevano varati. È
un processo semplice quanto frequente: non minacciando le fondamenta
di un’organizzazione di potere, ma rivendicando semplicemente il
miglioramento delle condizioni popolari, per esempio, è possibile,
in base alla propria forza, ricevere delle concessioni che vadano
nella direzione da noi desiderata e, addirittura, in direzione
contraria a quella sancita dalle fondamenta della società stessa.
Qualora la forza delle rivendicazioni successivamente fiacchi,
essendo rimasta immutata la natura e l’organizzazione del potere, è
naturale per quest’ultimo prodigarsi per il riallineamento delle
direzioni e la riconquista del terreno perduto, con i mezzi e gli
strumenti che riterrà opportuni. Tutti gli obiettivi raggiunti con i
grandi movimenti popolari (anche internazionali) nel ’68 e negli anni
settanta ne sono una prova evidente e in evoluzione sotto i nostri
occhi: lentamente ma inesorabilmente lo stato, o chi per lui, sta
riassorbendo tutte le conquiste ottenute da e per lavoratori e
studenti, oltre le rivendicazioni in ambito culturale e
internazionale (conflitti bellici, laicità, femminismo eccetera).
Non mi trovo attratto da nessuna delle due ultime ipotesi, ma che si
apra il dibattito nel movimento è necessario per la nostra forza e
per la nostra consapevolezza.

Apoliticità, partitofobia, nuovismo


Il movimento
studentesco, rispecchiando naturalmente la società civile ed in
particolare le giovani generazioni, è stato caratterizzato
inizialmente da una forte apoliticità. È l’ovvia conseguenza di una
politica istituzionale distante, subdola, egoista, ma vista come
l’unica politica possibile ed esistente. È necessario riprendere
possesso e coscienza anche di questo importante termine, anzi
concetto: la politica è quella che si occupa delle istanze dei
popoli e dei territori, col fine di esaudirne i bisogni, ascoltarne
la volontà, regolarne in base ad essa parte dei diritti e dei
doveri. Questa semplice descrizione esclude le burocrazie
parlamentari attuali dalla sfera della politica stessa, ed investe
momenti come quelli vissuti negli ultimi mesi dal movimento
studentesco, di tutta la responsabilità e l’importanza che la
politica incarna, come una delle poche istanze di politica reale
messa in atto di questi tempi. Da qui l’esigenza di riacquisire e
socializzare il significato ed il concetto del fare politica
,
riappropriarsi quindi della politica stessa partendo dal basso,
l’unica modalità del resto possibile per insinuarsi in un contesto
altrimenti stagnante e rigidamente bloccato dalle gerarchie e le
convenienze. Smettere dunque di essere apolitici, anzi, rivendicare a
se la politica attraverso la partecipazione, strumento indissolubile
di crescita individuale e collettiva, che implica ascolto, proposta,
confronto, decisione. Fare politica significa anche
imprescindibilmente
schierarsi.
Ma schierarsi per chi, per cosa? Ovviamente questo testo non ha lo
scopo di propagandare una organizzazione, un’associazione, un
partito, un centro sociale, un movimento, un sindacato o cose simili,
bensì di analizzare, proporre, offrire spunti di riflessione, di
discussione, perché no, provocare. Non conseguente, ma addirittura
antecedente alla apoliticità di cui probabilmente è anticipatrice,
esiste una diffusa partitofobia. La responsabilità di questo
fenomeno probabilmente è da attribuire, più che alle burocrazie in
generale, alle organizzazioni della
sinistra,
che più di altre, per indole ideologica, hanno catalizzato
l’attenzione e le speranze delle masse, purtroppo tradendole
ripetutamente nel corso della storia. Il risentimento scaturito da
tali episodi, che fra l’altro continuano a consumarsi anche durante
la stesura del testo, ha però provocato degli equivoci che pesano
sul presente e rallentano la riorganizzazione delle masse nonché
l’acquisizione di una coscienza critica collettiva. In primo luogo si
identificano le
idee
con le
organizzazioni:
tradimento delle organizzazioni
implica
tradimento delle idee.
Assolutamente illogico: sono le organizzazioni che si identificano
nelle idee e ne seguono i principi; qualora questo non avvenga, ne
consegue il tradimento delle istanze che l’organizzazione si
prefiggeva di difendere
e
delle idee in cui si identificava. Sono dunque le
idee di
sinistra
le tristi compagne
delle masse ad essere state tradite più volte nella storia passata e
recente. Di quali idee stiamo parlando? Uguaglianza, parità,
coesistenza, pace, giustizia, emancipazione, libertà. È dunque
l’
organizzazione la
pecca della sinistra? È lo strutturarsi, stabilendo ruoli, rapporti
ed una linea generale comune che causa la costante decaduta della
coerenza delle organizzazioni e la conseguente deriva? Per qualcuno
si. Si diffondono quindi relazioni e concezioni spontanee,
indefinite, assolutamente orizzontali, principi del tutto
condivisibili da un punto di vista teorico, tuttavia esse si
traducono anche in pratiche assolutamente dispersive e quindi
inefficaci e non incidenti. È la conseguenza della concezione che
rende organizzazione sinonimo di indemocraticità, fra l’altro
proponendo dei modelli che si sono rilevati empiricamente
indemocratici e altrettanto “traditori”. Non stabilendo, infatti,
nessuna regolamentazione nei rapporti di interlocuzione all’interno
di un qualsivoglia movimento, essi diventano terreno fertile per
leaderismi e individualismo diffuso, sostituendo a dei ruoli
esplicitati democraticamente, dei ruoli impliciti e, quindi,
indemocratici. Ma è mai avvenuto il tradimento di un modello simile
nei confronti delle masse o delle istanze che si poneva di difendere?
No, è ovvio. Non esistendo definizione strutturale, riconoscibilità
simbolica e interlocuzione collettiva con l’esterno mediante
strumenti comuni ed unitari, qualsiasi tipo di “tradimento” non
può essere attribuito a compagini, modelli o idee, tuttalpiù viene
attribuito a individui o gruppi di individui. Il colpevole errore di
gran parte delle organizzazioni che ha prodotto questo comprensibile
rifiuto, consiste nell’essere state organizzate, effettivamente, in
modo indemocratico, il ché però non è affatto consequenziale alla
sana pratica di organizzarsi, strutturarsi e stabilire delle linee
comuni ed unitarie, quindi efficaci; vi è tuttalpiù l’esigenza di
farlo col presupposto del rispetto, della democrazia interna e,
concetto assolutamente estraneo a molti di noi, dell’accettazione
della minoritarietà. È infatti questa la fondamentale dote che
caratterizza una collettività matura che decide di organizzarsi:
l’accettazione della possibilità di poter essere minoranza
all’interno dell’organizzazione, ovviamente dopo un libero confronto
e senza violare i principi imprescindibili dell’organizzazione
stessa. Al di là di questa basilare differenziazione, ci si muove
nell’ambito che fra l’altro caratterizza la logica che ci poniamo di
contrastare e declina la società stessa che intendiamo cambiare:
l’individualismo.


I motivi descritti
precedentemente hanno provocato, fuori e dentro gli ambiti di
partecipazione politica e sociale, un istintivo astio verso pratiche
già sperimentate e purtroppo fallite. Supportato dalla quotidianità
in continua mutazione formale, in preda a dinamiche superficiali,
artificiali e camaleontiche che nascondo una realtà assolutamente
statica, consolidata e con pochi spazi di libertà individuale,
esiste nei movimenti una certa tendenza nuovista, che
intende attualizzare ogni forma e sostanza politica attraverso
l’azzeramento di tutte quelle precedenti. Viviamo così
l’attualizzazione terminologica, analitica, pratica,
comunicativa, etichettando tutto quanto già proposto in precedenza
come vecchio, retrogrado, vetero. Abbiamo sperimentato addirittura,
durante una delle ultime assemblee, come possa essere considerata
inadeguata un’analisi (sottoforma di documento) poiché rispecchiava
rivendicazioni “vecchie di un mese”. Questo è un
evidente sintomo di come i frenetici tempi di vita (da catena di
montaggio), soprattutto in ambito universitario, si siano insinuati
nella nostra psicologia e nei nostri ragionamenti. Così come vi è
sempre la ricerca di termini nuovi affinchè i concetti veicolati
risultino maggiormente fruibili o accattivanti. Si scade, purtroppo
molto spesso, nella ricerca di una forma adatta e gradevole a scapito
dei contenuti veicolati, in perfetta sintonia con la società
dell’immagine in cui viviamo. Inoltre si tende ad effettuare delle
soppressioni terminologiche solo in base alla datazione o all’uso
frequente, letteralmente inseguendo la regressione lessicale nelle
masse, non contrastandola. Attualizzare le analisi, le proposte, la
loro diffusione, conseguentemente la terminologia e l’immagine, è
necessario come necessaria è la cura dei contenuti e la verifica
dell’effettiva necessità di rinnovo di concetti, assunzioni e
modalità di esposizione, diffidando dunque dalla diffusa tendenza
nuovista del rinnovo ad ogni costo, di forme e contenuti, ma
evolvendo quando possibile quelle fondamentalmente ancora valide.


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