L’esigenza di un nuovo meridionalismo

di Flavio Stasi

Commento pubblicato sulle pagine regionali de Il Quotidiano della Calabria, 1 Settembre 2012

La crisi economica ha messo in evidenza quello che gli osservatori più attenti denunciano non da anni, ma da secoli: gli stati occidentali sono strumenti nelle mani di una serie di banchieri e speculatori. Non fa eccezione l’Italia, che fin dagli albori ha rappresentato il segno dell’assoggettamento di popoli e culture in virtù del dominio economico di un regno, quello del Piemonte e dei Savoia, e di una serie di latifondisti anche stranieri interessati all’espansione di un regno. Quello che ne è risultato è il sud Italia di oggi, ovvero quello di dieci anni fa, ovvero quello di cento anni fa. Un meridione depredato non solo delle proprie ricchezze (si pensi alle infrastrutture prima che ai tesori borbonici) ma soprattutto della propria identità culturale e sovranità territoriale. Due concetti diversi, ma saldamente connessi.

La nostra identità culturale è stata annientata dalla dominazione prima piemontese, poi romana, mentre oggi sarebbe il caso di definirla “bocconiana”.

Da Savoia e Cavour a Monti e Passera, passando per i Mussolini, gli Andreotti, i Craxi, i Prodi ed i Berlusconi: una schiatta di regnanti che ha trasformato una naturale appartenenza quasi in una vergogna, decidendo per noi l’incapacità.

Hanno deciso che noi siamo incapaci di sfruttare le nostre risorse naturali, e per questo hanno disseminato coste e colli di centrali, cementifici ed altre catastrofi che poi hanno puntualmente lasciato lì, simbolo della bruttezza in una terra bellissima, quindi simbolo del nostro fallimento.

Hanno deciso che noi siamo incapaci di valorizzare le nostre risorse storiche, culturali, architettoniche, e per questo hanno reso le nostre città irraggiungibili con treni o strade decenti. Hanno deciso che la nostra lingua è dissonante, e per questo hanno bombardato generazioni e generazioni di meridionali con attori, cantanti e presentatori con l’accento lombardo o piemontese, a tal punto da farci pensare che quell’accento fosse quello “italiano”, a tal punto da farci stranire e quasi inorridire nell’ascoltare qualcuno con le consonanti pronunciate o le finali troncate in luogo pubblico o per radio o per televisione. Tranne, ovviamente, qualora si tratti di un comico: i buffoni di corte del sud sono sempre molto apprezzati.

È assolutamente necessario rammentare e recuperare tutto questo e la complessità della questione meridionale proprio oggi, quando il dominio di una schiatta di banchieri sta colpendo ulteriormente le nostre condizioni di vita non potendo più garantirci le briciole, quando il centro del potere decisionale, almeno quello presunto, si sposta ancor più lontano, da Roma-Milano a Bruxelles-Berlino. Oggi, mentre lo stato italiano decade per lasciar posto alla dominazione europea, è necessario tornare consapevoli delle proprie radici e della propria cultura, presenti ormai sono nelle canzoni popolari, ed essere consapevoli di ciò che lo stato italiano ha rappresentato realmente per noi e per la nostra terra.

Non di certo per odiare il nord, specularmente ad una manica di idioti: l’identità non si afferma a scapito di un’altra; la nostra cultura, per definizione, non si basa “contro” la cultura di qualcun’altro, tanto meno dei popoli meno distanti; la nostra economia non può basarsi sullo sfruttamento monolaterale delle altrui risorse, come accade costantemente tra occidente e oriente o tra nord e sud.

Bensì per affermare la nostra identità che nessuna dominazione militare o mediatica può modificare senza distruggere, tornare ad appartenere alla cultura e per questo conservarla, progredirla, irradiarla.

No, non come ha fatto fin’ora una cerchia ristretta di volenterosi intellettuali che si affaccendano a presentare libri, scrivere testi in dialetto, ripercorrere storie più o meno note. Questo tipo di “meridionalismo” è stato, seppur involontariamente, a tratti strumentale alla dominazione altrui, in quanto elitaria e di pura testimonianza.

Non esiste identità culturale senza sovranità popolare, e la nostra gente tornerà ad essere se stessa, meridionale, quando deciderà del proprio destino, quando avrà la consapevolezza di avere potere sulla propria quotidianità, potere oggi razziato da istituzioni distanti non solo geograficamente.

Ecco perché un nuovo meridionalismo non può non partire dalle lotte di territorio, dalla cacciata dei devastatori venuti da lontano che hanno piegato il nostro stile di vita prima della nostra economia e delle nostre possibilità.

La lotta contro il carbone, per esempio, che accomuna il nord ed il sud della Calabria, è una lotta da meridionali stufi di dover elemosinare un pugno di posti di lavoro in cambio della propria salute, della propria economia collettiva, effettiva o potenziale, o anche semplicemente del proprio paesaggio. Non tanto perché gli speculatori che li propongono hanno sede legale chissà dove, quanto per il modello imposto che questi rappresentano, che è esattamente il modello di consumo e di sfruttamento delle risorse che noi subiamo da un secolo e mezzo. Ed ancora la lotta per le bonifiche, contro le discariche, la lotta per gli ospedali, la lotta dei lavoratori vittime dei barbari tagli agli enti pubblici o dei ricatti aziendali.

La crisi non è nient’altro che un’occasione: per banchieri e speculatori che forzano e per i popoli che vengono forzati.

Un nuovo meridionalismo dovrebbe cercare di dare a tutte queste battaglie, a quelle perse, vinte e non fatte, una struttura ed una prospettiva: quella di tornare a decidere di noi stessi, della nostra terra, ed in questo modo riappropriarci dell’identità e della cultura. Dopo averlo fatto, mentre lo faremo, lo celebreremo in dialetto.


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