Commento pubblicato sulle pagine regionali de Il Quotidiano della Calabria di Venerdì 24 Agosto 2012.
di Flavio Stasi
Uno dei più grandi punti di forza delle organizzazioni criminali è il dominio culturale: il radicamento, cioè, degli usi e dei linguaggi criminali nella quotidianità popolare, l’imposizione della propria mentalità bieca e barbara come sentinella ancor più accorta rispetto al potere militare e territoriale.
Di questi argomenti ciarlano spesso le istituzioni, ovvero coloro che dovrebbero, in via del tutto teorica, creare le condizioni necessarie per spezzare l’egemonia culturale ‘ndranghetista.
In Calabria, invece, le istituzioni sono spesso veicolo di questo dominio culturale, insieme ad un’altra serie di soggetti (si pensi ai grandi operatori economici), assimilandone ed irradiandone usi, costumi e modalità di comunicazione.
È evidente che se le istituzioni di questa regione amano relazionarsi attraverso modalità simili a quelle degli affiliati ad un’organizzazione criminale, la popolazione tutta si trova di fronte ad un vicolo cieco: non ha alcun modello culturale, economico e sociale alternativo a quello dell’ignoranza, del favore, della disuguaglianza, del sacrificio, della violenza.
Se lo dimostrassimo potremmo forse affermare che il nostro popolo, seppur con la sua colpevole ignavia, non fa altro che sopravvivere al modello ‘ndranghetista imposto da un manipolo di armigeri con la coppola, onorevoli e amministratori delegati?
Ai più scettici propongo un paragone: non potremmo forse affermare che le popolazioni dell’intero pianeta fanno lo stesso col neoliberismo, imposto da un manipolo di banchieri, onorevoli ed amministratori delegati?
Se leggessimo la stampa con attenzione, anche solo quella dei giorni scorsi, capiremmo immediatamente di cosa stiamo parlando.
Leggeremmo di sindaci, consiglieri provinciali, presidenti ed onorevoli che a delle normalissime critiche non rispondono instaurando una dialettica politica, con tesi e antitesi, critiche e contro-critiche: questo permetterebbe ai cittadini attenti di farsi un’idea, interagire ed organizzarsi, ma di certo non è questo un obiettivo per uomini impoltronati.
Leggeremmo, invece, di apparati politici che rispondono esattamente come farebbe il capo-zona nei confronti di un giovane guappo che infastidisce gli affiliati: tentando di bersagliare gli uomini e le donne, non i contenuti; tentando di deridere gli individui, isolarli, zittirli ostentando il proprio potere; tentando di imporre un concetto terrificante: per criticarli e mettere il naso nelle “loro cose” (sarebbe la pubblica amministrazione) devi essere noto ai criticati prima che ai tuoi interlocutori (i cittadini). Un atteggiamento simile a quello di un losco figuro che nella piazza ti chiede “tu chin si? A chin apparten?”.
Leggeremmo di autorevoli istituzioni, persino rettori delle università ovvero responsabili di quelli che dovrebbero essere i centri culturali di questa società, che intimano la stampa, direttamente e pubblicamente, affinché non dia spazio a critiche nei loro confronti qualora gli autori non fossero “in regola”, ovvero qualora non facciano parte di una cricca, tipo un partito o un’associazione studentesca. In pratica qualora non siano cani ed abbiano buoni padroni.
Eppure questo non dimostra ancora nulla.
Cioè che inchioda la classe dirigente al modello culturale ‘ndranghetista è che di fronte a ripetuti atti di questo tipo mai vi è stato sussulto, mai indignazione da parte di settori e categorie, non un minimo intervento degli organi di controllo, non una minima auto-critica di altri esponenti delle stesse organizzazioni o compagini.
Ergo: un’istituzione che intima la stampa a non pubblicare determinate opinioni è cosa normale.
Non ci stupisce: quelle stesse organizzazioni tirate in ballo, si ispirano e si sviluppano molto spesso su quello stesso modello culturale ‘ndranghetista che ne influenza funzioni e gerarchia.
Ed in effetti c’è anche quello che non leggereste sulla stampa, per questioni di tempo o di spazio o di opportunità. Per esempio non leggereste di forze dell’ordine che non prendono alcun provvedimento mentre a pochi metri un camion pieno di rifiuti annaffia le strade di nauseabondo percolato , e che sollecitate dai cittadini rispondono con l’indifferenza o peggio ancora: “Non è mia competenza, fate una denuncia alla procura della repubblica”. Non sento, non vedo, non parlo. Sarà per questo che l’apposita commissione d’inchiesta parla di “impunibilità” degli operatori del settore dei rifiuti?
Eppure non può certo esser tutta colpa del singolo funzionario dello stato, il quale probabilmente, anch’egli isolato, non fa altro che eseguire degli ordini indotti da quello stesso modello culturale che stiamo cercando di individuare e che in quel frangente si afferma brutalmente.
E cosa dire poi dei sermoni anti-mafia, quelli che vanno sempre di moda, quelli espressi da esponenti istituzionali e non, con toni solenni e volti rammaricati, per esprimere vicinanza alle vittime di qualsivoglia atto criminale e intimidatorio, oppure per dichiarare guerra a questa sconosciuta ‘ndrangheta. Di fronte ad una tale quotidianità, non sono forse questi dei significativi atti di affermazione di un dominio culturale? Il solidale col carnefice che, senza pudore, ha il potere di esprimere pubblicamente solidarietà alla vittima senza per questo essere smascherato.
Ecco perché è sbagliato ed allo stesso tempo auto-assolutorio mettere sullo stesso piano il popolo rassegnato e la classe dirigente collusa. Non perché l’indifferenza del popolo non agevoli il radicamento della criminalità organizzata, ma perchè affermarlo implica dare responsabilità a tutti, conseguentemente cambiare nulla e nessuno, ed è evidente che qualcosa invece va cambiato, a partire dalla classe dirigente che impone un modello culturale funzionale alla rassegnazione ed alla criminalità.